Diverse società in tutto il mondo sembrano avere almeno una cosa in comune: parlare del ciclo mestruale delle donne è quasi un tabù universale.
Nelle culture in cui le donne hanno conquistato un certo grado di emancipazione e in cui i diritti legati alla riproduzione sono dibattuti apertamente, le stesse riescono a visitare con regolarità i ginecologi e a farlo senza vergogna. Ma in molte società, le donne non possono permettersi il lusso di parlare apertamente e a proprio agio di quella che è la più regolare delle ricorrenze e spesso vivono i giorni del ciclo nascondendosi o vergognandosi.
La realtà in un informale centro abitato sovrappopolato è anche più complessa. In Africa, le donne che vivono nelle baraccopoli si trovano ad affrontare questo inevitabile fatto della vita in spazi estremamente ristretti, con uno scarso accesso all’acqua e senza un posto privato dove lavarsi insieme a qualsiasi straccio o a qualsiasi altra cosa usino.
Queste difficoltà possono avere dure conseguenze per le ragazze in questione. Un report del 2009 della ONG TearFund stimava che “il 10% delle ragazze in età scolare in Africa non va a scuola durante le mestruazioni o la abbandona completamente durante la pubertà perché mancano strutture sanitarie pulite e con una certa privacy.”
Se le ragazze che vivono nelle baraccopoli devono andare avanti nella vita — in un posto in cui sono già cittadini di seconda classe e hanno poche opportunità di cambiare questo status — è di fondamentale importanza che frequentino la scuola tanto quanto i maschi. E’ per questo che la soluzione del problema del tabù del ciclo è diventato un punto di focalizzazione importante per tante Ong e business sociali che operano nelle baraccopoli in Africa.